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Economia Il capitalismo è in crisi perché "è un serpente che comincia mangiarsi dalla coda" Morto il comunismo reale il libero mercato ha mostrato il suo vero volto Luigi Crespino si ringrazia il sito della Associazione Città Futura di Alessandria per aver pubblicato l'articolo 23/8/2011 Il crollo “dell’utopia" comunista ha scoperchiato, finalmente, tutti i limiti del capitalismo, del cosiddetto "libero mercato" e dimostrato che Marx era un lucido studioso che aveva capito tutto. L’economia pianificata è caduta sotto i fendenti assestati da una classe di felloni, mezze calzette che sono seguiti alla morte di Lenin. Lenin era un fine intellettuale, un fine economista e un carismatico combattente. Ma il risvolto positivo del crollo del comunismo reale, perché quello vero è un’altra cosa, è stato che il capitalismo, “liberato” dalla costrizione di mostrare un volto un po’ più umano perché, per fermare la forza del movimento operaio, doveva accogliere molte istanze socialiste, si è mostrato per quello che è: lo sfruttamento scientifico dell’uomo sull’uomo, che “deve”, per sua precipua mission, concentrare la ricchezza (o meglio la moneta) in poche mani e aumentare gli esclusi. Rosa Luxembourg disse che “il capitalismo è un serpente che comincia a mangiarsi dalla coda”. Ora il serpente ha abbondantemente superato la metà della sua lunghezza. “Il libero mercato porta all’ottimo collocamento delle risorse”. Questa apparentemente semplice affermazione che, dotti economisti e anche comuni imbecilli sovente ripetono, ha due punti complicati. Il primo è che fra le risorse rientra anche la forza-lavoro, cioè uomini e donne; la seconda sta nel fatto che da quando è stata proferita questa frase il concetto di “ottimo” non è stato mai chiarito. Non solo, ma, nella prospettiva capitalistica, è anche difficile da chiarire. Pareto diede la sua spiegazione, l'ottimo paretiano, appunto: l’ottimo si raggiunge nel punto in cui, migliorando la posizione di uno un soggetto quella di un altro comincia a peggiorare. Ma anche questo è un ottimo abbastanza stravagante, che nulla aggiunge a quello che qualcuno può immaginare significhi “ottimo” nella frase sopra citata. Cioè il mio padrone per comprarsi un secondo abito nuovo invece di un’ora di intervallo, a parità di salario, me ne fa fare mezz’ora. In pratica mi paga di meno, ma non è detto che, prima, pur avendo un’ora di intervallo, il salario era adeguato alle mie necessità di essere umano. Oggi qualcuno sta tentando di nascondere, quindi di confondere, una crisi di sistema con la speculazione che sta facendo affondare i titoli azionari nelle contrattazioni delle Borse valori e falcidiando i risparmi riposti in titoli di stato. Questo è uno degli aspetti della fallacia del capitalismo non è la causa: è la conseguenza della stessa ingannevole affermazione di cui sopra. Crollato il comunismo, il capitalista ha fatto quello che qualsiasi ladro o qualsiasi predatore fa. Il ladro fra due case che contengono lo stesso bottino va in quella meno protetta, così l’animale non certo aguzza l’ingegno per saltare un recinto se fuori c’è una preda libera. In economia qualcuno ha dato a questo fenomeno il bel termine di “delocalizzazione”. Questa consiste nel buttare in mezzo alla strada, non prima di averli scaricati sulle casse dell’INPS per diversi anni, i lavoratori italiani, che in una buona percentuale erano tutelati dallo statuto dei lavoratori e dai contratti collettivi ed è andato “oltre cortina” (Polonia, Bulgaria, Romania) oppure nei paesi del terzo mondo dove con lo stipendio lordo di un operaio italiano paga mezza fabbrica. Cioè per aumentare il suo profitto ha fatto l’unica cosa che sa fare, cioè aumentare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. In questo senso l’affermazione sul libero mercato è vera, il capitalista mica è scemo per pagare i lavoratori di più, va dove li paga di meno e moltissimo di meno! Ma dove venderà queste merci il capitalista che è stato così furbo? È proprio qui che il serpente comincia a mordersi la coda. Non nei paesi dove è andato a produrre, perché il salario che corrisponde è al di sotto della mera sussistenza, ma nemmeno in Italia dove i lavoratori della sua fabbrica chiusa non hanno soldi da spendere visto che sono stati licenziati da lui. La crisi da sovrapproduzione industriale strozza il capitalismo con le sue stesse mani: cioè il capitalismo è in grado di produrre più beni e a più buon mercato ma non sa a chi venderli. L’affondamento degli indici di Borsa dei titoli che rappresentano tanto aziende quanto stati non è all’origine del fenomeno sopra descritto. Il mercato borsistico, da un po’ di tempo a questa parte, vive una vita tutta sua e cerca semplicemente di fare denaro con denaro, usando come mezzo i titoli di aziende che producono, oppure titoli di stati che chiedono prestito ai risparmiatori per pagare anche le pensioni di lusso dei parlamentari nullafacenti, ma anche stipendi agli insegnanti, ai medici etc. La Borsa, che un tempo era detta Borsa valori, oggi è stata abbreviata semplicemente in borsa, appunto. Perché Borsa valori? Perché i risparmiatori compravano titoli del debito dello stato, credendo nel loro stato, e titoli di aziende credendo che le aziende fossero dirette da signori seri e consapevoli che volevano produrre cose buone, che avevano una valore sul mercato e con il ricavato potevano compensare i risparmiatori che avevano deposto i loro soldi nelle mani di quello stato e di quei signori. Oggi, invece, al posto dei titoli delle società e dei titoli di stato potremmo metterci delle palline e il discorso non cambierebbe, se non per un aspetto che vedremo alla fine. Gli speculatori scommettono e promettono di vendere, per esempio, un BTP (titolo di stato italiano) o un’azione FIAT fra un certo periodo di tempo ad un prezzo più basso di quello attuale. Questo lo fanno senza avere quel titolo in mano. Alla scadenza, per rispettare il contratto, devono comprare il titolo e consegnarlo al prezzo a suo tempo pattuito alla controparte. Per guadagnare, va da se, che lo speculatore il giorno di scadenza deve comprare quel titolo ad un prezzo più basso rispetto a quello al quale ha promesso di venderlo. In questa sala bingo globale i polli da spennare sono i piccoli risparmiatori che appena vedono che i loro 5.000,00 euro messi da parte (in Buoni dello stato o in azioni societarie) valgono 3.000,00, presi da panico, cominciano a vendere. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con il valore reale di quel titolo (che dovrebbe rappresentare il patrimonio dell’azienda e la solvibilità di uno stato). E siamo al punto di prima perché pagare qualcosa per quel che vale se posso pagarla molto di meno rispetto al suo valore? Nel caso dei nostri titoli di stato aggiungete un presidente del consiglio che racconta barzellette e va a puttane e un ministro cerebralmente offeso, ma era così anche quando era normodotato, che chiama nano un altro ministro e preferisce Scillipoti alla Montalcini, il giochetto è ancora più semplice. Ma ora, per ritornare alla questione delle palline, si evince che la “Borsa” è composta da personaggi che potrebbero, anzi, dovrebbero stare in un casinò. Ma per entrare in un casinò bisogna avere dei soldi e cambiarli in fiche altrimenti l’omone grosso vicino all’ingresso li butta fuori in men che non si dica. Nelle “Borse” loro non giocano con soldi veri, ma con soldi scritti su una carta, comprando e vendendo, in pochi secondi, milioni di titoli di stato o milioni di titoli che rappresentano aziende e questo lo fanno indipendentemente da reali necessità. Le transazioni finanziarie, che prima misuravano il volume delle transazioni commerciali, oggi, poiché i soldi non sono veri (ma sono veri gli effetti della speculazione) non hanno al fondo necessità reali. Perfino il minzoliniano TGUNO, adesso che nella tagliola del mercato c’è capitata l’Italia diretta dal suo padrone, si è accorto che i soli immobili della FIAT o i soli quadri che possiede una banca valgono molto di più (anche il doppio) del valore della loro capitalizzazione di borsa. Ma se così stanno le cose“nulla questio”, si potrebbe dire, cioè possiamo stare tranquilli? Manco per niente: Susan Strange, economista americana, in tempi non sospetti, anni 90 del secolo scorso, aveva già ammonito sugli effetti nocivi dell'economia di carta sull’economia reale. Immaginiamo che, a seguito di un flop in “Borsa” del titolo di un istituto di credito, donami mattina si presentino in banca tutti i depositanti per ritirare i soldi perché non hanno più fiducia di poterli riavere indietro. Cosa succiderà? La banca, per sperare di trattenerne qualche po’ di moneta, aumenterà il compenso per convincere i depositanti a lasciarli, cioè il tasso di interesse passivo. Poiché la banca, almeno in Italia, potrà prestare solo una parte di quei soldi al mondo produttivo, per poter guadagnare, dovrà venderli ad un prezzo (tasso di interesse attivo) esageratamente più alto del prezzo di acquisto. Coloro che non saranno in grado di accedere al credito bancario e coloro che non ce la faranno a pagare gli interessi salteranno per aria, i loro dipendenti finiranno in mezzo ad una strada e così via. Così ciò che è avvenuto nell’economia di carta, nel "capitalismo d’azzardo" direbbe la Strange, si ripercuote nel mondo produttivo. Analogo discorso vale per i titoli di stato che, come detto, pagano ospedali e scuole oltre alle pensioni d’oro. Per poter essere collocati il Tesoro dovrà garantire agli investitori un rendimento molto alto. Così lo stato mette una bella ipoteca non solo sui già nati, neonati compresi, ma anche su coloro che devono ancora nascere. Ed ecco spiegato il capitalismo che, nella sua parte più moderna, ha sostituito il ciclo denaro-merce-denaro, con il ciclo denaro-carta-denaro. In mezzo aziende, lavoratori e stati che rimangono inghiottiti nel vorticoso gioco di qualche spregiudicato al quale gli stati sovrani non vogliono togliere la “libertà”, tutta capitalista, di vendere qualcosa senza prima averla acquistata. A coloro che si domandano, ma che storia è mai questa? La risposta è: “E’ il libero mercato, bellezza!” |
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