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La legge Bassanini e il decentramento di Tangentopoli

Malpractices nelle regioni e negli enti locali: un case study

Prof. Massimo Villone

[Costittuzionalista, Università di Napoli Federico II, Facoltà di Giurisprudenza]

Lo scritto fa parte di un lavoro dal titolo "Costituzione, legalità, corruzione" del 2010, è un edizione provvisoria di ScriptaWeb.

Spiega molto bene come le "riforme" che si sono susseguite negli anni '90 hanno decentrato Tangentopoli.

24.02.2017

Nei primi anni ’90 il terremoto di tangentopoli investe le istituzioni con forza devastante. Il sistema dei partiti, già ampiamente corroso dall’interno, collassa. I gruppi dirigenti sono decimati dalle inchieste e dagli arresti. Si rende visibile un vasto sistema di corruzione politico-amministrativa vol-to al finanziamento occulto della politica. È un’emergenza democratica, che richiede una politica pulita, capace di interpretare la domanda di cambiamento, di nuova legittima-zione e più forte radicamento.

È qui che matura la scelta dell’elezione diretta di sindaci e presidenti di provincia, che – insieme al sistema elettorale maggioritario di collegio per il parlamento nazionale - viene approvata nel 1993. Il modello è semplice. Un proporzionale di lista e preferenza unica per il consiglio comunale, di collegio per quello provinciale. In entrambi casi, con premio di maggioranza legato all’elezione – a doppio turno - del capo dell’esecutivo. Sindaci e presidenti possono essere sfiduciati dall’assemblea, ma al prezzo del contemporaneo scioglimento anticipato del consiglio.

Al tempo stesso, si allenta la maglia dei vincoli giuridici intorno alle amministrazioni. Si attenuano la responsabilità penale e quella contabile. Si riducono i controlli preventivi di legittimità sugli atti amministrativi fino al minimo compatibile con il dettato dell’allora vigente art. 130 della Costituzione. Si amplia la sfera di discrezionalità politico -amministrativa, e la possibilità che l’amministrazione disegni in autonomia la propria organizzazione. Si muta radicalmente il ruolo di figure storiche, come il segretario comunale, da sempre occhiuto guardiano dell’ente locale in nome e per conto del ministero dell’interno. Se ne introducono di assolutamente nuove, come il city manager, nella prospettiva di un’amministrazione improntata a nuovi criteri di efficienza e rendimento. Le leggi “Bassanini” danno il via a un vasto decentramento, con il conferimento ai livelli regionali e locali delle funzioni amministrative che non richiedono una collocazione nazionale. È il c.d. federalismo amministrativo o a Costituzione invariata, nella seconda metà degli anni ’90.

Per le regioni lo svolgimento trova un punto focale nella approvazione di una riforma costituzionale per l’elezione diretta dei governatori (l. cost. 1/1999). La riforma si innesta sul Tatarellum, legge elettorale per il consiglio regionale approvata nel 1995. Su un proporzionale con preferenza unica e premio di maggioranza si colloca l’elezione diretta del capo dell’esecutivo, e si mutua il collegamento cessazione dalla carica del governatore -scioglimento anticipato del consiglio già introdotto per comuni e province. Si accentua fortemente la personalizzazione della politica. Ed è in buona parte una scelta voluta, come quando si scrive nella norma costituzionale che persino la morte o l’impedimento permanente di un governatore determini lo scioglimento anticipato del consiglio. Anche quando, cioè, la cessazione dalla carica avviene per cause prive di qualsiasi rilievo politico. Una scelta immotivata ed eccessiva. Persino nell’archetipo dei modelli presidenziali – quello degli Stati Uniti – nel caso di morte di un presidente subentra il vicepresidente fino a conclusione del mandato.

Le linee evolutive richiamate trovano poi un definitivo consolidamento, ed anzi una accentuazione, nella riforma del Titolo V della Costituzione. Viene approvata dal centrosinistra in fine della XIII legislatura. Secondo un’opinione prevalente nello stato maggiore del centrosinistra, la parola d’ordine del federalismo può favorire il recupero nel Nord del paese, dove la coalizione è in affanno. E quindi si va avanti, in un contrasto frontale con l’opposizione, con una riforma in più punti malfatta. Per la prima volta nella storia repubblicana si modifica la Costituzione a colpi di maggioranza. I fatti smentiscono poi, nel voto del 2001, l’illusione di un guadagno elettorale per il centrosinistra.

Le scelte fatte dal 1993 al 2001 intendono, nel complesso, rispondere alla gravissima crisi dei primi anni ’90. Una politica più vicina ai cittadini, attraverso l’elezione diretta. Maggiore stabilità delle giunte per il nesso sfiducia-scioglimento anticipato. Maggiore capacità di governo per il legame tra capo dell’esecutivo e maggioranza data dal premio alle liste collegate. Maggiore efficienza per la più ampia discrezionalità politico-amministrativa, e i poteri più incisivi sull’organizzazione. Un’amministrazione alla porta di casa dei cittadini, per il vasto decentramento delle funzioni. Quindi, più trasparenza, capacità di ascolto, controllo sociale, in luogo della pletora di controlli e vincoli giuridico-formali che già avevano dimostrato la propria inadeguatezza al tempo di tangentopoli, non avendo prevenuto o attenuato la tempesta.

È andata così? No. Un fossato sempre più profondo separa politica e governanti dai governati. Malamministrazione, clientelismo, familismo, spreco del denaro pubblico sono la regola piuttosto che l’eccezione. Critiche, sollecitazioni, inchieste scorrono senza effetto alcuno su un ceto politico che non mostra traccia di pentimento e tanto meno di ravvedimento operoso. Gli strumenti della responsabilità politica rimangono inoperanti verso chi male governa o male amministra. Quel che una volta avrebbe provocato dimissioni immediate e vergogna imperitura diventa oggetto di battute da salotto, o di risposte infastidite davanti a una telecamera o sulle pagine di un giornale. Tutto ciò accade in particolare nel Mezzogiorno, ma non solo. Le relazioni annuali della Corte dei conti sono una vera galleria di orrori amministrativi. Forse solo il tempo del primo mandato ai sindaci eletti direttamente in base alla legge del 1993 risponde pienamente alle attese, e mostra un rendimento adeguato. Ma è una stagione breve.

Perché questo drammatico divario tra gli obiettivi e le speranze, e i risultati poi effettivamente realizzatisi? Probabilmente, una motivazione prevale. Il tempo del cambiamento è anche quello in cui si dissolvono i partiti di massa come organizzazione radicata e vitale di partecipazione democratica e di selezione del ceto politico.

Già tangentopoli porta in sé una forte carica antipartitocratica. Nel cambiamento si innesta la teorizzazione del partito leggero. L’elefantiaca organizzazione burocratica di massa è alla base della fame di risorse e della conseguente degenerazione verso il finanziamento illecito. C’è bisogno di partiti leggeri. Ma partiti tanto leggeri da essere evanescenti non riescono ad assolvere le funzioni di elaborazione progettuale e di selezione del ceto politico che hanno svolto nella storia repubblicana. Ancor meno in presenza di scelte sulle istituzioni che oggettivamente portano alla ulteriore destrutturazione di quel poco che resta dell’organizzazione partitica.

A questo contribuisce la preferenza unica. Viene introdotta per evitare il controllo partitocratico del voto reso possibile dalla preferenza plurima, e per contrastare in alcune parti del paese il pericolo di un ingresso della criminalità organizzata nelle competizioni politiche. Ma produce come effetto collaterale la guerra di tutti contro tutti all’interno di ciascun partito. Dove si applica un sistema elettorale di lista e preferenza unica nessun partito governa più la competizione elettorale. I partiti perdono qualsiasi capacità di selezionare il ceto politico. Si arriva al seggio non per volontà del partito, ma per il consenso personale di cui si dispone.

È chiaro che questo produce assemblee di notabili, la cui forza si misura esclusivamente per il pacchetto di voti di cui si dispone. Ognuno gioca per se stesso, perché se il consenso personale è in assoluto la cifra politica, solo mantenendo o aumentando quel consenso ci si garantisce un cursus honorum oltre la carica al momento detenuta. Per questo, la poltrona nell’assemblea elettiva non si lascia per nessun motivo. Un partito che non c’è non può offrire garanzie a nessuno per il futuro. Ed ancora per questo un sindaco o un governatore non cadono perché sfiduciati a causa dell’incapacità di governare. Nessuno è più contrario di un consigliere di maggioranza all’idea di votare una sfiducia al capo dell’esecutivo, che comporta la contemporanea perdita del seggio consiliare. Una richiesta del partito in tal senso si espone a un grave rischio di essere disattesa. Persino il consigliere di opposizione tende a fare la sua parte senza esagerare, nella chiave di un sano consociativismo e di un interesse condiviso.

La lettura nobile talvolta prospettata è nel vedere stabilità e governabilità perseguite attraverso l’elezione del leader con la sua maggioranza, e per l’intera durata del mandato. Ma l’effetto concreto è cementare i titolari di cariche di governo alle poltrone. Chi governa male può dormire sonni tranquilli. Oggi, nelle assemblee elettive sono praticamente dissolti i meccanismi della responsabilità politica. Sindaci e governatori se mai cadono perché qualcuno della maggioranza cambia casacca. Ed è comunque un calcolo di convenienza e di lucro personale o di gruppo, che con la politica con la P maiuscola in genere nulla ha a che fare. E la ragione è nel fatto che quei meccanismi presuppongono – per funzionare – la presenza nelle assemblee di partiti solidi e vitali, capaci di autonomia verso le istituzioni.

Al contrario, i partiti sono oggi largamente partiti di governatori, di sindaci, di assessori. Le titolarità di cariche esecutive determina gli assetti di potere all’interno dei partiti. È difficile ipotizzare un segretario provinciale o regionale eletto in contrapposizione a un forte sindaco, o un forte governatore dello stesso partito. Un assessore importante può ben essere la figura dominante nell’organizzazione locale, in grado di orientare le decisioni degli organi di partito, o per-sino di contrapporsi ad essi. E di sicuro non si dimette, se richiesto.

È questo il contesto in cui le scelte volte a rafforzare il livello istituzionale regionale e locale aprono la porta a forme degenerative talvolta anche molto gravi. Gestire il potere politico-amministrativo nella chiave del consenso personale di chi governa produce malapolitica e malamministrazione. Il buon governo viene da un sistema di incentivi per le best practices, e di disincentivi per le malpractices. Ma se gli incentivi vengono invece dalla costruzione del consenso personale, e le cattive pratiche non trovano la sanzione della responsabilità politica, solo un popolo di santi e di eroi piuttosto che di amministratori saprebbe tenere fermo il timone verso il buon governo. È così che in larga parte si spiega, ad esempio, la diffusione a macchia d’olio di esternalizzazioni selvagge di funzioni che bene e utilmente potrebbero rimanere all’interno dell’organizzazione amministrativa, e il proliferare di società a partecipazione mista pubblico-privato. Creazione di prebende e poltrone ben retribuite negli organi dirigenti delle società, pacchetti di posti di lavoro da distribuire ad amici, sostenitori, parenti e soda-li. Corruzione e cattive pratiche pagano.

Ancor più considerando che la sanzione possibile attraverso un controllo serrato della società civile è indebolita anch’essa dalla gestione clientelare del potere politico-amministrativo. Le infinite polemiche sugli incarichi, le nomine, le consulenze, sul proliferare di organi presuntivamente tecnici e palesemente inutili, si spiegano anche in questa chiave. Chi governa non ha bisogno di controllare la società civile. Basta che acquisisca il sostegno degli opinion makers, dei punti di riferimento: professionisti, imprenditori, docenti universitari, intellettuali. E a tal fine in molti casi basta – purtroppo - qualche finanziamento bene indirizzato, o una sinecura prestigiosa e ben retribuita.

Un tempo, avremmo visto negli organi centrali dei partiti i guardiani di ultima istanza delle buone pratiche politico-amministrative, del buon governo, dell’etica pubblica. Avremmo confidato nella loro capacità di selezionare il ceto politico, assicurandone un ragionevole livello di onestà e competenza. Ma non è più così. Le prime vittime dell’attuale corso della politica sono i partiti nazionali. La destrutturazione dell’organizzazione partitica a tutti i livelli, la dislocazione di forti poteri politico-amministrativi dal centro in periferia nella chiave di un avvicinamento al federalismo, le rigidità istituzionali come il simul stabunt simul cadent introdotte a tutela del mito della stabilità e governabilità, hanno capovolto la realtà di un tempo. Ora il potere effettivo è molto più nei partiti territoriali che in quello romano, soprattutto se a Roma non si è al governo. Accade così che un sindaco, un governatore, un assessore possono respingere senza patemi la richiesta di dimissioni o di rinnovamento avanzata da un segretario nazionale. Oggi sono i segretari nazionali ad avere bisogno di quel sindaco, governatore o assessore, e non viceversa. Il signorotto locale ha sempre nella manica l’arma della lista civica, del partito personale, del cambio di casacca. Nello scontro, rischia molto di più il segretario.

È questo il contesto nel quale oggi molti ritengono che il governo regionale e locale sia un terreno particolarmente favorevole al diffondersi della corruzione. Naturalmente non in via esclusiva, come ad esempio le inchieste che hanno investito la Protezione Civile, o autorevoli esponenti politici nazionali, ampiamente dimostrano. Ma regioni ed enti locali gestiscono la metà o più delle risorse totali del paese. Si tratta di cifre imponenti, che passano in un circuito politico-istituzionale frantumato e largamente privo di efficaci checks and balances, torpido e ambiguo nel controllo sociale.

Del processo politico-istituzionale sopra descritto avvertiamo gli esiti negativi ancora una volta nelle parole della Corte dei conti. Sulla moderna forma di gestione clientelare consentita dalle società miste e dalle esternalizzazioni le Sezioni Unite affermano il 20 gennaio 2010 nell’Audizione sulla finanza locale nella Commissione Bilancio della Camera che “l’esternalizzazione di servizi e di attività da parte degli enti territoriali è stato negli ultimi anni un fenomeno in continua crescita, sospinto, talvolta, non solo dalla ricerca delle migliori e più efficienti forme organizzative ma anche dallo scopo di aggirare vincoli normativi e di controllo delle spese ritenuti dagli enti troppo rigidi”. Ne è venuto “un uso improprio dello strumento”. L’esternalizzazione di servizi e di attività ha assunto principalmente la forma della società partecipata. “A tale tendenza ha corrisposto un diffuso ri-scontro di perdite d’esercizio, direttamente incidenti, attraverso il risultato della gestione operativa, sugli equilibri di bilancio dell’ente locale”. La Corte segnala anche la mancanza vigilanza da parte dell’ente locale, e l’omissione di verifiche interne che avrebbero potuto evidenziare le responsabilità nel determinarsi di stati di crisi. Inoltre, la Corte richiama il crescente ricorso a fondazioni, che “non dotate di sufficiente patrimonio, di frequente generano perdite, esito incongruo per tali organismi. Perdite che devono essere, naturalmente, ripianate”.

In realtà, emerge dall’audizione una galleria di malpractices politico-amministrative. E infatti La Corte sottolinea che la trasformazione dell’ente locale da erogatore di servizi a soggetto regolatore che opera come holding (o attraverso holding) pone, tra l’altro, la necessità che si eviti la concentrazione nel medesimo soggetto pubblico delle funzioni di regolatore e azionista; e l’opportunità che sia previsto un sistema di “governance” in grado di orientare le decisioni verso opzioni determinate dal rispetto dei principi di legalità, buon andamento, trasparenza e pubblicità, che governano l’azione delle pubbliche amministrazioni. Sistema che, allo stato, evidentemente manca.

Concetti non diversi nel Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica del maggio 2010, ribaditi ancora nell’Indagine sul fenomeno delle partecipazioni in società ed altri organismi da parte di comuni e Province, del 22 giugno 2010. Si segnalano le società partecipate “quale strumento spesso utilizzato per for-zare le regole poste a tutela della concorrenza e sovente finalizzato ad eludere i vincoli di finanza pubblica imposti a-gli enti locali”, mentre rimane “sostanzialmente impossibile cogliere dai bilanci degli enti locali informazioni disaggrega-te (e quindi consolidabili) sulla gestione degli organismi partecipati”. Il tutto con riferimento a circa seimila enti locali, ed altrettanti organismi partecipati, con una media di 4 per i comuni con meno di 5000 abitanti, di 5/6 per i comuni da 5000 a 100000, e di 21/22 per i comuni sopra i 100000 abitanti. Un fenomeno di dimensioni imponenti, che in circa il 35% dei casi riguarda la gestione dei servizi pubblici locali, e segnatamente il ciclo ambiente-rifiuti, comprendendo per il resto le più varie attività. Un fenomeno, dunque, in grado di condizionare profondamente i modello organizzativo dell’ente, la sua disponibilità o propensione alle buone pratiche, e persino gli assetti politico istituzionali

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