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Economia 24 Mosler alla conferenza “Debito Pubblico: Strumento di sviluppo sociale o freno alla crescita?”Roma, ottobre 2012Per prima cosa affronterò quella che credo sia la questione meno compresa, vale a dire il motivo per cui il debito nazionale dei Paesi dell’Eurozona sia così elevati. La risposta comincia con l’indiscutibile fatto che il debito pubblico è pari al totale degli asset finanziari in euro detenuti dal settore privato. Per ogni “settore chiuso” l’euro è un tradizionale caso di “moneta interna”, funziona come un “giroconto” o un meccanismo di “clearing house”. L’unico modo in cui un agente può avere asset finanziari netti è che un altro sia debitore netto, a ciascun asset in euro corrisponde un debito in euro. Il netto è sempre zero. Questo tipo di sistema notoriamente non può soddisfare un desiderio netto di risparmio, a meno che si provveda a immettere nel settore asset finanziari netti. Nel caso dell’euro questo significa che il settore privato necessita di spesa in deficit del settore pubblico per soddisfare i propri desideri di risparmio netto, se ce ne dovessero essere. Si noti anche che la spesa pubblica viene utilizzata per pagare le tasse o rimane come risparmio netto nell’economia, in una forma o in un’altra. La disoccupazione, per definizione, è la prova che l’economia non ha sufficiente reddito in euro per pagare le tasse e soddisfare i propri desideri di risparmio netto. Un’analisi sui “desideri di risparmio” che generano il bisogno di asset finanziari netti dà la risposta al motivo per cui il debito pubblico nazionale sia tanto elevato. La struttura istituzionale europea prevede potenti incentivi al risparmio attraverso l’accumulo di asset finanziari. Storicamente queste sono state chiamate “perdite di domanda” come incentivi fiscali, forme di accantonamento obbligatorio del reddito in fondi pensione, riserve societarie e denaro contante in circolazione. Senza una pari espansione del debito di altri agenti privati che spendono più del proprio reddito, questi desideri di risparmio non possono essere realizzati a meno che il settore pubblico non spenda più delle proprie entrate. Negli anni immediatamente precedenti all’istituzione dell’euro i Paesi membri con debiti attualmente elevati emettevano valuta propria. Che ne fossero consapevoli o meno, in quanto emettitori essi non avevano problemi di solvibilità, stabilivano i propri tassi d’interesse e soddisfacevano i desideri interni di risparmio con la spesa pubblica in deficit che consentiva di sostenere la crescita e mantenere la disoccupazione a un livello relativamente basso. Il punto in questo caso è che deficit elevati stavano compensando l’ingente perdita di domanda insita nelle strutture istituzionali. E quest’esigenza non è scomparsa poiché il tradizionale problema della perdita di domanda resta. Si noti poi che il Paese col deficit più basso, il Lussemburgo, non ha mai avuto una propria valuta ma è stato invece obbligato dalle forze di mercato a finanziare i propri asset finanziari netti con le esportazioni nette. Ciò che è cambiato con l’euro e con i “divorzi” dalle banche centrali nazionali è stata la capacità di finanziare i deficit da parte dei Paesi dell’Eurozona. Le dinamiche finanziarie al loro interno sono diventate molto simili a quelle degli Stati degli Stati Uniti. Essi non possono più “stampare moneta” e sono invece vincolati dagli introiti ma, a differenza degli Stati Uniti, i Paesi sono entrati in Eurozona quando erano emettitori di valuta propria, non costretti dalle rendite e potevano agire per compensare le perdite di domanda quanto necessario a sostenere produzione e occupazione. Oggi la BCE è la banca centrale dell’euro. Io spesso la chiamo la “segnapunti” dell’euro. Il sistema della BCE spende e presta euro semplicemente accreditando conti. Questi euro non “provengono” da nessuna parte. Gli euro sono “informazioni digitali”. Quando gli fu chiesto da dove venissero i miliardi di dollari prestati alle banche il Presidente Bernanke rispose: “…noi semplicemente usiamo il computer per aumentare il saldo del conto che detengono presso la Fed”. Infatti a livello operativo qualunque banca centrale può effettuare pagamenti di qualunque entità nella sua propria valuta. Quando la BCE fa un acquisto di titoli da 500 milioni di euro nessuno chiede da dove vengano fuori gli euro o se la BCE li abbia in qualche modo presi in prestito dalla Cina. Le banche centrali non sono costrette dalle rendite nell’utilizzo della propria valuta. Questo le mette nella posizione unica di essere in grado di agire anti-ciclicamente durante un rallentamento dell’economia. Al contrario i Paesi dell’Eurozona, come quelli degli Stati Uniti, quando l’espansione creditizia del settore privato fallisce e le economie rallentano non sono in grado a livello finanziario di reagire anti-ciclicamente all’aumento dei desideri di risparmio. Solo la BCE può, come mi piace dire, “staccare l’assegno” per soddisfare la domanda di asset finanziari netti da parte della struttura istituzionale, domanda evidente se si considera l’elevato tasso di disoccupazione e l’output gap esistente. Dato il livello del credito del settore privato e quello delle esportazioni nette, l’Eurozona attualmente necessita di livelli di spesa pubblica in deficit ancora più elevati per sostenere crescita e occupazione. E solo la BCE può staccare l’assegno. E sì, sono cosciente delle difficoltà politiche che ciò implica, tra cui la questione più pressante è quella del moral hazard [1]. Data la necessità di un livello più elevato di debito pubblico nazionale ed essendo in ultima istanza la BCE l’unica a poter staccare l’assegno, discuterò ora delle opzioni politiche che permettono di chiudere l’output gap e dei rischi ad esse associati. Una semplice garanzia da parte della BCE sul debito pubblico dei Paesi e un allentamento dei limiti di Maastricht ad almeno il 7% del PIL determinerebbero un’immediata espansione delle vendite, della produzione, dell’occupazione e della prosperità in generale. Tuttavia, senza un’adeguata azione di vigilanza che garantisca il rispetto di tali limiti questa espansione innescherebbe anche una corsa inflazionistica sregolata poiché il Paese che riuscisse a realizzare i livelli più elevati di deficit trarrebbe maggiori benefici in termini reali. Quindi la sfida consiste nel concedere un livello di espansione fiscale tale da compensare le perdite di domanda nei Paesi membri senza però disporre del controllo fiscale diretto a livello centrale di cui dispone un’unione valutaria come quella statunitense. Un’altra opzione sono i titoli di credito fiscale. Si tratta di titoli trasferibili che possiedono le stesse caratteristiche dell’odierno debito sovrano ma che, in caso di mancato pagamento (non c’è alcuna condizione di default), possono essere utilizzati per il pagamento delle tasse del Paese in questione. Questo significa che ai contribuenti di altri Paesi membri dell’Ue non verrà mai chiesto di pagare le obbligazioni di alcun altro Paese membro, cosa che presumo avrebbe un’ampia attrattiva politica. Una terza opzione è che annualmente la BCE distribuisca “contante” ai Paesi membri in misura, ad esempio, del 10% del Pil dell’Eurozona su base pro capite. Questo consentirebbe ai Paesi di iniziare una sistematica riduzione del deficit fino al completo annullamento su un periodo pluriennale. A tal fine la BCE potrebbe negare il pagamento ai violatori, cosa decisamente più semplice da fare rispetto a imporre e raccogliere multe come succede oggi. Vent’anni fa ero a Roma al Ministero delle Finanze con il Professor Luigi Spaventa insieme al mio collega Maurice Samuels della Harvard Management. Anche quelli erano tempi bui per l’Italia. Il debito superava il 100% del PIL, i tassi d’interesse erano oltre il 12%, l’economia globale era debole e il professor Rudi Dornbusch chiudeva il cerchio proclamando che il default dell’Italia era certo. Retoricamente chiesi al Professor Spaventa perché l’Italia stesse emettendo CCT (Certificati di Credito del Tesoro) e BTP (Buoni del Tesoro Poliennali). Era per finanziare le spese o perché se il Tesoro avesse speso lire senza emettere titoli e la Banca d’Italia non avesse venduto titoli il tasso overnight sarebbe crollato a zero? Ci fu una lunga pausa prima che il Professor Spaventa rispondesse: «No, i tassi si ridurrebbero solo allo 0,5% visto che noi paghiamo interessi sulle riserve», dando prova di piena e repentina comprensione del fatto che non ci fosse alcun rischio di default. Dopodiché si lanciò in un’invettiva alle condizionalità dell’FMI. Era stato sollevato un grande peso. La settimana seguente fu annunciato: «Non sarà presa nessuna misura straordinaria, tutti i pagamenti saranno effettuati puntualmente» e la crisi di debito svanì. Risolvere quella crisi di debito fu relativamente facile poiché nei fatti non c’era alcuna crisi di debito. Oggi la situazione è più seria e più complessa. Il problema economico è che il livello di deficit è troppo basso, mentre l’impressione della politica è che il deficit sia troppo elevato. E il conseguente finanziamento con condizionalità da parte della BCE si traduce in tassi più bassi e disoccupazione più alta. Si noti che non ho fatto alcun accenno al tasso d’interesse o alla politica monetaria in generale. I miei quarant’anni di esperienza come insider nelle operazioni monetarie mi dice che contano molto poco per la crescita e l’occupazione. E per i Paesi con deficit elevato sono giunto ad avere aspettative di tassi elevati da parte della Banca Centrale, che promuove l’inflazione tramite i canali delle entrate per interessi e attraverso la struttura dei costi generale dell’economia. Concluderò con qualche parola sull’inflazione. Così come il dollaro, lo yen e la sterlina, l’euro è un semplice monopolio pubblico. E il monopolista è necessariamente un price setter, non un price taker [2]. Inoltre un monopolista fissa due prezzi. Il primo è quello che Marshall chiamò “tasso proprio”, il prezzo al quale l’oggetto del monopolio viene scambiato con se stesso. Per una valuta questo è il tasso d’interesse fissato dalla BC. Il secondo è il prezzo al quale lo stesso oggetto viene scambiato con altri beni e servizi. Per una valuta è il livello dei prezzi. Io lo definisco in questo modo: il livello dei prezzi è necessariamente una funzione dei prezzi pagati dal Governo di emissione quando spende e/o delle garanzie richieste quando presta. Per l’Eurozona questo significa che in ultima istanza il controllo dell’inflazione si realizza mediante il contenimento della spesa pubblica, limitando i prezzi a cui ai Paesi membri è consentito pagare quando spendono. Come per l’attività bancaria centrale, è una questione di prezzo e non di quantità. Grazie. Note del Traduttore 1.^ Moral hazard: vedi Wikipedia.org 2.^ In assenza di concorrenza, il prezzo della valuta è determinato dal monopolista (price setter) e non dal mercato (che, dovendo accettarlo, si trova quindi in posizione di price taker). |
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